mercoledì 30 settembre 2009

Per quel che vale, dico la mia su Il fatto

  1. Un giornale in più è meglio di un giornale in meno. Uscire con un progetto di questo tipo, col vento che tira, è comunque una prova di coraggio. E quindi bravi.
  2. Costa 1 euro e 20. Eh.
  3. Gli abbonamenti, ho letto, vanno molto bene. E in edicola le copie vanno via come il pane. Bravi, ancora: si sono accorti di avere un potenziale pubblico attivo -parente intimo del seguito internettaro che intasa i blog di Beppe Grillo & Travaglio di commenti e vota Di Pietro, più o meno- e gli hanno offerto quel che cercava.
  4. E appunto, volendo arrivare alle cose peggiori, ho l'impressione che il pubblico fosse alla ricerca di un giornale al limite del fanatismo legalitario, ideologicamente antiberlusconiano e-però-le-cantiamo-anche-al-PD. C'è ostilità di panza contro la casta, c'è la convinzione necessaria e sufficiente a ritenere ogni indagine della magistratura qualcosa di cui discutere trascurando la presunzione d'innocenza (e quindi, un po', anche la Costituzione: articolo 27, comma 2). Grazie, ma no grazie. Idee che non mi piacciono, idee che in buona parte ritengo sbagliate e povere, idee che in buona parte non sono di sinistra e del cui effetto su quest'ultima -e sul suo elettorato- ho un bel po' di paura.
  5. Posizioni personali a parte, ho notato la ripetizione di qualche firma a fondo degli articoli, e ho letto che la redazione è piuttosto snella. Una volta esaurito l'entusiasmo dei primi mesi, c'è il rischio che il lavoro di squadra si spenga piano piano e la pochezza numerica si traduca in pochezza giornalistica.
  6. Graficamente, è molto brutto. Ma l'hanno già spiegato bene qui.

martedì 29 settembre 2009

Such thing as "Rule of law"

Mi ronzano in testa due dubbi, a cui mi viene spontaneo rispondere con due risposte alla Beppe Grillo. Quindi immagino ci siano particolari che mi sfuggono, o elementi che non prendo in considerazione perchè li ignoro del tutto.

Comunque, il primo è: ma se Maradona deve 36 milioni di euro al fisco italiano, com'è che gli pignorano due orecchini e morta lì? Cioè: io mi aspetto che le autorità facciano visita a uno che ha imbrogliato lo stato in misura così clamorosa, se non altro per verificare l'effettiva configurazione del reato. Non dico metterlo in gabbia e buttare la chiave, però insomma, qualcosa. No?

E il secondo: ma la campagna de Il Giornale contro il pagamento del canone RAI è perfettamente legale? Cioè: mettere su un'iniziativa propagandistica in cui si invitano le persone a non pagare un'imposta statale non è in nessun modo conflittuale con qualche legge, là fuori?

Poi magari no, in nessuno dei due casi. Però, chi lo sa.
Update: ti pareva, dal Giornale fanno sapere quanto segue

Si tratta di una richiesta che rispetta la disciplina di legge vigente. Se presentata entro il 31 dicembre, la dispensa dal pagamento del canone scatta dal 1° gennaio dell’anno successivo.
La richiesta deve altresì riportare l’ulteriore richiesta di mandare «i propri incaricati ad insaccare (in un sacco di juta o di plastica) e sigillare il televisore che l’utente dovrà mettere a loro disposizione che così recita: «Intendo far suggellare il mio televisore ed indico il numero del mio abbonamento n°...».

La ricevuta di ritorno va conservata finché il funzionario dell o Sportello abbonamenti tv o la Guardia di finanza su incarico della Sat, viene a bussare a casa vostra su appuntamento «concordato in precedenza». Perché per entrare coattivamente in una casa privata senza incorrere nel reato di violazione di domicilio serve un mandato del magistrato.

Addirittura, qui si può scaricare il modulo per rinunciare al canone, e con esso alla Tv, che verrà -verbo geniale- suggellata.

lunedì 28 settembre 2009

But I'm a creep, I'm a weirdo; puttanaeva

In questo caso, la questione è semplice.
Creep dei Radiohead è una delle migliori canzoni degli anni'90, e Vasco ha perso la maniglia di brutto rifacendola a 'sto modo qui, sostituendone il testo con una roba di banalità iperspaziale.

Ps: da questo blog, scopro che nella pagina di Youtube relativa al video, fra i commenti si può leggere quanto segue:

I radiohead non dovranno far altro ke ringraziare Vasco perkè se ora saranno riconosciuti anke in italia è grazie a lui visto ke fino ad ora non li cagava nessuno!!!

Spernacchiare o mandare affanculo, a scelta.

venerdì 25 settembre 2009

Qualche gnomo nella macchina da presa

Quand'ero di là dall'oceano in vacanza, in giro c'erano due promozioni dure di film in uscita: District 9 e Inglorious Basterds.
Beh, parliamone.

Il primo (esce oggi) è una roba interessante dal punto di vista formale (se si supera l'effetto sismico derivato dall'abuso della camera a mano) e piuttosto storta da quello del contenuto. Per farla breve, in District 9 gli alieni arrivano sulla Terra, a Johannesburg, e vengono rinchiusi, a centinaia di migliaia, in una specie di baraccopoli. Un dipendente della MNU (super azienda di armi) gira un documentario (che poi è la cornice dentro cui viene raccontato tutto quanto) e ha dei casini che lo portano a frequentare più da vicino il mondo degli alieni. Da qui, si sviluppa il resto.
I colpi di scena funzionano, la storia, pur traballando qua e là, sta in piedi. C'è la spielbergata dell'astronave parcheggiata nel cielo della città, ci sono trovate e belle sequenze.
Il problema è che, ho l'impressione, nel suo svolgimento il film si stacca molto dalla sua idea di partenza. Si parte con metafore buone sull'immigrazione, sui conflitti razziali e sul rapporto con le minoranze e si chiude con un serie di giochini sentimentali e famigliari. In mezzo, manca un po' l'uovo che tiene insieme la torta, se mi perdonate la metafora.

Il secondo (esce venerdì prossimo) è il filmazzo di Tarantino, omaggio a una pellicola italiana degli anni '70. Di rappresentazioni che tirano dentro nazi, ebrei e sangue zampillante, ce ne sono a camionate. Ma la cosa bella di Inglourious basterds è che racconta una storia in cui gli ebrei (americani e tedeschi) sono cattivi e violenti. Anche molto cattivi e violenti, al punto da collezionare scalpi crucchi. Sono dei bastardi, insomma, e senza gloria. Per la strada di questi bastardi, s'infilano la vicenda personale di una ragazzina sfuggita alle SS cui capita di poter consumare la sua vendetta, una parallela missione militare inglese e la proiezione di un film nazi. Finale contorto in cui tutto viene al pettine, ok sì anche voi siete stati al cinema -o avete letto un libro- negli ultimi 20 anni.
Quanto ai personaggi e ai dialoghi, Tarantino tiene botta e conferma le sue cose migliori (con gli immancabili riferimenti alla produzione spaghettara di Sergio Leone): i primi sono un po' storti, caricaturizzati, gonfiati, colorati e talvolta improbabili. I dialoghi sono forse meno appassionanti, ma più densi, e spesso divertenti.
Sparpagliate qua e là, ci sono diverse minchiatine gustose: micro-flashback, un po' di crudeltà snocciolata come si deve e ottime ricostruzioni dell'epoca.
L'idea migliore del film, tuttavia, ha più a che fare con come i personaggi dicono le cose, e non con cosa dicono. Molto apprezzabile, infatti, la trovata in cui, a un certo punto -dentro a un film in cui convivono americani, tedeschi, inglesi, francesi e finti italiani, e ognuno parla la sua lingua ma anche altre- buona parte della matassa si sbroglia a seguito di un'intuizione -avuta da uno sbirraccio della Gestapo- basata su un parametro identitario relativo a una comunicazione non verbale: a seguire, sparatoria furibonda.
In altri film, sarebbe sembrata una cazzatona. Qui, funziona benissimo (e se non capite quel che dico, è normale; però un po' vi ho incuriosito).
Quanto al sugo della storia, in questo caso non si può prescindere dalla sua dissonanza con la realtà dei fatti: dal punto di vista dell'intreccio, Quentin s'inventa una capriola finale che sembra corrispondere ai sogni di un bambino, e certamente non a quanto riportato sui manuali di storia. Niente di male, di per sè, ma un po' di sostanza in più avrebbe reso grande un film che invece è "solo" molto divertente.

mercoledì 23 settembre 2009

"Ho fatto sei burqa e due corani, lascio?"

Daniela Santanchè va in Tv dopo essere stata aggredita (storia risaputa, a grandi linee) e dice delle cose. Ogni cosa che dice, un pubblico di massaie batte le mani. A una signora che cerca di aprire un momento di contraddittorio, Daniela Santanchè dice: "Provi lei a mettersi il burqa".
Quello che pensa Daniela Santanchè è questo, pressapoco: il problema, da quelle parti, è quello in cui credono. E' il testo, non l'interpretazione. E' la radice, non il ramo. E' la cultura, non le pratiche. E' l'islam. Nessun ospite ribatte. Al massimo, la conduttrice fa -molto cautamente- il multiculturalista avvocato del diavolo: "Ma secondo te non è che loro si sono sentiti offesi, per la loro cultura islamica?" Il che suona tipo: non è che sono stronzi sin da quando sono nati?
Naturalmente, nello studio televisivo (siamo su Canale5, il pomeriggio) non c'è uno straccio di ospite che dica una cosa minima, almeno per dare una bussola al discorso. E cioè che il burqa col Corano c'entra poco o niente. Che da nessuna parte, nel Corano, si obbligano donne a mettere il burqa, pena chissàche.
E allora, visto che si esclude la sua malafede, supponiamo che Daniela Santanchè non sappia alcune cose dell'islam.
Converrà spiegargliele, non prima di aver esplicitato una posizione che, teoricamente, dovrebbe esonerarmi da sue immaginarie accuse di ricchionismo terzomondista, filoterrorista, meticcio e ateo.
Tale posizione è la seguente: a me, il burqa sta molto sul cazzo.

Ma dicevamo.
L'islam, Daniela Santanchè, è una cosa molto complicata.
E' qualcosa di più di una religione, nella misura in cui, al suo interno, spicca decisamente un elemento giuridico di organizzazione della società. Sì, non tira dentro solo il rapporto fra fedele e Dio, ma anche fra fedeli e fedeli, o fra fedeli e infedeli.
Non che tutto sia previsto, lì dentro eh, ma un bel po' di cose sì. In questo, è abbastanza simile (abbastanza simile) alla Torah ebraica. Lì, per esempio, vero?, c'è scritto di vestirsi di bianco, di costruire capanne e di lapidare le adultere.
L'islam, Daniela Santanchè, una Chiesa non ce l'ha. Non nel senso di luogo di culto, sciocchina, nel senso di istituzione gerarchica, verticizzata e universalmente riconosciuta come punto di riferimento per la congregazione di fedeli. Noi abbiamo il Papa, la CEI. Abbiamo il pastore, e abbiamo il gregge.
E i musulmani? I musulmani non hanno una Chiesa.
Hanno, invece, una quintalata di scuole interpretative del Corano. Hanno tanti pastori, che non necessariamente condividono lo stesso stile, anzi. Da questo, deriva una molteplicità di greggi. Rispetto alla complessità e alla contraddittorietà del testo sacro di riferimento, i fedeli musulmani non hanno una voce che dice 'des te spieghi mi sel dis cusè, ma una serie di scuole di pensiero, anche in contrasto tra loro.
Se un cristiano cattolico entra in una chiesa, che questa chiesa sia in Francia o in Brasile, cambia poco: il messaggio è universale, lo spazio per le interpretazioni è molto ridotto e il santo padre l'è semper lù.
Se un musulmano entra in una moschea, può trovare leader spirituali che dicono cose anche molto diverse, tutti fondandole sui testi sacri, chiaro.
Di scuole interpretative (giuridiche, teologiche o entrambe) dicevo, ce n'è una quintalata. E' qui che la faccenda si complica, ed è qui che la sua posizione diventa oltranzista e ignorante: è nella pluralità delle tradizioni islamiche che nasce il conflitto con le nostre società.
In mezzo alla quintalata di scuole, infatti, ce ne sono parecchie di matrice totalizzante e integralista. Ce ne sono che basano l'organizzazione della collettività su principi che noialtri in Occidente non accettiamo e detestiamo. Ce ne sono che stabiliscono un'equivalenza fra peccato contro Dio e crimine contro lo stato, annullando così le possibilità di scelta e gli spazi di tolleranza. Ce ne sono che magari non stabiliscono un'equivalenza netta, però ci vanno giù duro comunque. E' a causa degli insegnamenti generati da dottrine così totalizzanti, che molti fedeli musulmani ritengono sacri comportamenti e stili di vita che nelle nostre società secolarizzate, addirittura, talvolta configurano reati.
Di scuole, però, naturalmente ce ne sono anche di più modernizzanti e "laiche", per usare un termine inflazionato.
Ce ne sono di tutti i tipi. Ma ho l'impressione che a lei, Daniela Santanchè, di tutti 'sti tipi non freghi una mazza. Che non abbia la minima curiosità di capirne idee e storia, pratiche e differenze. Che rifiuti la conoscenza, preferendole il lancio di slogan come scontro di civiltà e religione antidemocratica.
Che la sua voglia di affermare la superiorità della civiltà cristiana (qualsiasi cosa essa sia) su quella islamica sia troppo forte, e la porti a divulgare idee sbagliate. Che lei, per dirla facile e farsi capire dalla pancia dell'elettorato, vada un tanto al chilo.
Altrimenti, lei saprebbe che le scuole coraniche sono tutte d'accordo nel dire che il Corano non obbliga nessuno a mettere il burqa. A proposito, legga qui cosa dice la sura 33 (trovata su Wikipedia, mica sul Capitale di Marx): "...Oh Profeta! Di' alle tue spose e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si ricoprano dei loro mantelli; questo sarà più atto a distinguerle dalle altre e che non vengano offese..."
Mantelli atti a distinguerle. Chiaro, no? Il Corano dice: donna, fatti vedere in faccia altrimenti è un casino. Quindi il burqa è escluso.
E allora, 'sto burqa, da dove diavolo salta fuori?
Beh, dal deserto, è ovvio. C'è un gran caldo, c'è un vento che non ti dico. Sai che faccio? Mi metto su 'sto coso e fanculo sia al caldo che al vento.
C'è solo un tipo di burqa? No. Quello contro cui si scaglia lei, Daniela Santanchè, e che pure a me sta molto sul cazzo, ripeto, è quello afghano.
Ma il burqa afghano, porcapupazza, è una roba che si sono inventati i talebani. Cioè, c'era da tempo, per via del fatto che quella zona è una gigantesca gola riarsa buona solo per coltivare oppio, ma poi è stato ripescato dai talebani. Per legge (mica con una fatwa), quei mascalzoni hanno obbligato le donne afghane a girare in pubblico solo se accompagnate da un consanguineo - e a indossare il burqa.
Con un provvedimento pubblico, sono intervenuti nella sfera privata, intima, delle donne e le hanno obbligate a fare una cosa che, molto probabilmente, nessuna di loro voleva fare.
Oggi, l'ordinamento dello stato afghano non prevede più il burqa, ma nel Paese, per paura di ritorsioni da parte delle bande fanatiche che puntano a ripristianre il regime talebano, tante donne ancora lo indossano.
Il problema, nelle società occidentali, è duplice. Da una parte, c'è da evitare che le donne siano obbligate da mariti oppressivi a indossare il burqa, dato che obbligare la moglie a indossare qualunque cosa non si fa. Dall'altra parte, c'è la questione della sicurezza: i cittadini devono essere identificabili. E qui constatiamo lo scarto culturale, la difficoltà di inserirsi nella sfera famigliare di immigrati per capire come risolvere problemi verificare eventuali abusi dei nostri codici legislativi.
Questa, più o meno, è la situazione.
Questa, più o meno, è la storia della faccenda.

Il problema, e il senso di questo post volendo, è che lei di mestiere fa la politica. Rappresenta delle persone. E dovrebbe rappresentarle alla luce di un'approfondita conoscenza delle materie che tratta. Se lei ha preso delle botte da un rimbambito, mi perdoni la schiettezza, ma chissenefrega: è un evento che non aggiunge nulla alle sue pretese battaglie, e che non necessariamente arricchisce la bontà del suo impegno. Tanto più che -lei lo sa e un po' ci marcia su 'sta cosa- negli anni si è guadagnata una forte antipatia da parte di quella fazione più radicale dell'islam italiano. E quindi trovo compatibile (ho scritto "compatibile") con toni e strategie della sua campagna, che qualche idiota -dato che è idiota- le molli un ceffone o le dia della zoccola.
Ma quello che si ha a cuore, da cittadini, è il tipo di consenso che lei contribuisce a formare, e l'orientamento generale che lei suggerisce su questi temi così delicati del vivere collettivo.
Vista da qui, mi creda, la sostanza non va oltre un minestrone casalingo di cari valori cattolici, misere tirate d'indipendentismo femminista e odio per il barbuto con la scimitarra. Un miscuglio inseparabile dall'ignoranza che rovescia sui nodi della questione dibattuta.

Ci sarebbero altre cose da dire, ma mi fermo qui: un po' per competenza personale, un po' per lunghezza del post.
Comunque, se vuole combattere il fanatismo islamico, ascolti un tipo intelligente come Aaron Sorkin, Daniela Santanchè. Che sarà cocainomane e biscazziere quanto vuole, ma è uno che sa il fatto suo. Legga la sua ricetta per sconfiggere gli integralismi religiosi: Remember pluralism. Keep on accepting more than one idea. It makes them absolutely crazy. (cit.)

martedì 22 settembre 2009

In realtà, essere nero è una cosa che non ho fatto io

A spiegare i motivi un po' pirla per cui qui si apprezza molto (ma molto) il presidente di là dall'oceano, ci ha pensato il presidente di là dall'oceano.
Dicendo, nell'ordine:

Sing us a song of the century, that's louder than bombs and eternity

Dopo il post di ieri su Willie Francis, ho trovato un filotto di "ultime parole" pronunciate da condannati a morte texani.
  • Andiamo avanti?
  • Niente di ciò che posso dire può cambiare il passato.
  • Ho perso la voce.
  • Vorrei dire “ciao”.
  • Il mio cuore continua a fare ba bump ba bump ba bump.
  • Il microfono è acceso?
  • Non ho nulla da dire. Mi dispiace solamente per quello che ho fatto.
  • Sono nervoso ed è difficile mettere insieme i miei pensieri. Talvolta non sai che dire.
  • Uomo, c’è un sacco di gente là.
  • Sono venuto qui per morire, non per fare discorsi.
  • Dove la madre del signor Marino? Ha ricevuto la mia lettera?
  • Voglio chiedere se c’è posto nel vostro cuore per perdonarmi. Non dovete per forza.
  • Potete dire a quella donna che sta lì – la posso vedere? Non mi sta guardando – voglio che tu capisca una cosa, non serbare ostilità nei miei confronti. Voglio che tu capisca. Per favore, perdonami.
  • Non pensoche il mondo sarà migliore o più sicuro senza di me.
  • Mi dispiace.
  • Voglio dire a mia mamma che le voglio bene.
  • Le ho provocato così tanto dolore, e la mia famiglia, eccetera. Soffro per il fatto che loro soffriranno.
  • La sto prendendo da uomo.
  • Smettete d’indugiare e accendete il fuoco. Sto andando a casa.
  • Possono giustiziarmi ma non possono punirmi, perché non possono giustiziare un uomo innocente.
  • Non potevo scontare l’ergastolo.
  • Ho detto che avrei raccontato una barzelletta. La morte mi renderà libero. Questa è la più grossa barzelletta.
  • Alla mia dolce Claudia, ti amo.
  • Cathy, lo sai che mai avrei volevo ferirti.
  • Ti amo, Irene.
  • Fate sapere a mio figlio che gli voglio bene.
  • Dite a tutti che mi sono rimpinzato di pollo e costolette di maiale.
  • Apprezzo l’ospitalità che mi avete dato e anche il rispetto, l’ultimo pasto era davvero buono.
  • Il motivo per cui ci hanno messo così tanto è perché non trovavano una vena. Lo sapete quanto odio gli aghi… Dite ai ragazzi nel Braccio della Morte che non mi sono messo il pannolino.
  • Signore, alzo in alto il tuo nome.
  • Da Allah veniamo e ad Allah ritorneremo.
  • Per tutti gli incarcerati, teneta alta la testa.
  • Il braccio della morte è pieno di cuori isolati e menti soppresse.
  • Gli errori si fanno, ma con Dio tutto è possibile.
  • Sono responsabile per la loro perdita della madre, del padre e della nonna. Non volevo che loro fossero coinvolti. Mi dispiace per quello che ho fatto.
  • Non posso cancellare ciò che ho fatto.
  • Signore Gesù perdona i miei peccati. Perdonami per i peccati che riesco a ricordarmi.
  • Per tutto la vita sono stato rinchiuso.
  • Datemi i miei diritti. Datemi i miei diritti. Datemi i miei diritti. Datemi indietro la mia vita.
  • Sono stanco.
  • Me lo merito.
  • Una vita per una vita.
  • È la mia ora. È la mia ora.
  • Sono pronto, Warden.
Trovati qui.

lunedì 21 settembre 2009

Bolle di nebulosa, a 7100 anni luce da qui

Ovvero come il caso e la necessità, talvolta, siano grandi strateghi:

Dei delitti e delle pene 2.0

Ieri, ho letto un articoletto sul Corriere che parlava di questa storia: Ohio, braccio della morte, iniezione letale, al condannato non trovavano la vena, rimandano il tutto.
La cosa più interessante dell'articolo, tuttavia, era il riferimento alla storia di Willie Francis.
Willie Francis era un sedicenne afroamericano della Louisiana che venne condannato per l'omicidio di Andrew Thomas, suo ex datore di lavoro. A quanto ho capito, il movente dell'omicidio non è mai stato molto chiaro, così come la posizione di Francis, che nonostante avesse confessato per iscritto di aver commesso il crimine, si dichiarò innocente al processo.
Ad ogni buon conto, il tribunale della Louisiana lo giudicò colpevole, e gli comminò l'esecuzione capitale tramite sedia elettrica.
Il giorno dell'esecuzione, 3 maggio 1946, Willie Francis viene legato alla sedia, sistemato nel modo in cui abbiamo visto tutti ne Il miglio verde. Una mano tira giù la leva, parte l'elettroschock. Finito il tutto, però, Willie Francis non è mica morto. Probabilmente per via di un errore tecnico da parte di qualche guardia, l'intensità dello shock non è stata sufficiente. Insomma, spengono la sedia elettrica, terminano l'esecuzione, e Willie Francis è ancora vivo.
C'è da ripetere l'esecuzione.
C'è da ammazzarlo un'altra volta.
In seguito a sto casino, un giovane avvocato di nome Bertrand DeBlanc, prese in mano la causa di Francis (da notare che DeBlanc era sia amico di Thomas che, proprio come quest'ultimo, membro della comunità cajun. E siamo in Louisiana, negli anni '40).
Tutti alla Corte Suprema, dunque, per decidere se sottoporre due volte un condannato alla sedia elettrica non costituisca una "pena crudele e inusuale" (proibita dalla costituzione, ottavo emendamento) e non violi il principio del ne bis in idem, secondo cui nessun tribunale può pronunciarsi due volte sul medesimo fatto, se questo è già definitivamente passato in giudicato (sancito nel quinto emendamento).
Il caso Francis v. Resweber fu preso in esame nel novembre del '46, e la sentenza fu emessa nel gennaio '47. Nonostante un voto preliminare espresso a favore di Francis, la Corte stabilì che la ripetizione dell'esecuzione non costituiva una violazione della Costituzione.

Il guasto delle apparecchiature non può avere a che fare con il processo. Nell'esecuzione della sentenza, non è stato inflitto gratuitamente un dolore superfluo. E la crudeltà dell'ottavo emendamento si riferisce a una crudeltà di metodo, non alla crudeltà che compone l'effettiva sofferenza implicata in una legittima sentenza di morte.

Il giorno della seconda esecuzione era il 9 maggio 1947. Quella volta, Willie Francis morì.
Nel 2006, è uscito un documentario che riassume tutta la sua incredibile storia.

venerdì 18 settembre 2009

Capiamoci

Io, di mio, sarei un tipo anche molto pacifista. Il che non significa condannare ideologicamente e a priori ogni intervento militare: significa dire che sono pacifista.
Il pacifismo, per farla molto breve, è un'invenzione derivataci da quell'abissale massacro che è stata la seconda guerra mondiale.
L'umanità, nella sua storia, di guerre ne ha fatte a tonnellate, per molti motivi.
In Afghanistan, dove sei italiani sono divenuti martiri della lotta al terrorismo, ci sono delle questioni in ballo; questioni anche molto importanti per il mondo in cui viviamo e per le idee su cui è costruito.
In Afghanistan, dove sei italiani sono divenuti martiri della lotta al terrorismo, si stima che siano morte altre quarantamila persone, più o meno.
In guerra, porcogiuda, gli uomini sono morti, muoiono e moriranno sempre. E non lo dico solo perchè l'ho letto sull'Iliade.
Attenzione che ribadisco il concetto, dato che circolano molti sbalordimenti, rispetto a quanto riportatoci dalle cronache di ieri: in guerra, gli uomini, muoiono. Quanti ne muoiono e come muoiono sono elementi variabili, la costante è che si muore.
Sono pronto a scommettere che i sei martiri della lotta al terrorismo avessero abbastanza chiara quest'idea, e ben fissa in mente la relativa paura: se in guerra si muore, magari un giorno muoriamo noi. Che non significa andarsela a cercare, o meritarsela o scemenze del genere. Significa prendere le misure a quello che si fa: scendo le scale troppo velocemente, e magari cado; vado in Afghanistan con indosso la divisa dell'Esercito italiano, e magari muoio.
Quindi, rispetto alle logiche di un'operazione che si prefigge di:
  1. Smantellare un regime illegittimo e tirannico (fatto)
  2. Segare duro le cellule terroristiche di chi ha messo su l'11/9 (work in progress)
  3. Stabilizzare e democratizzare uno dei Paesi più poveri del mondo; vittima di un'invasione sovietica a fine '70, di un regime fanatico poi, di una guerra e di brigate terroristiche ancora più fanatici infine (work in progress, very much)
trovo stupida, miope e vigliacca qualsiasi proposta di ritiro delle truppe italiane che porta a sostegno della sua validità i morti ammazzati di ieri.

giovedì 17 settembre 2009

La gaia scienza, cioè scimmie senza peli con la schiena dritta, cioè pirlatine desossiribonucleiche che sopravvivono nei corpi nostri

Negli ultimi giorni, alcuni testoni americani si sono avventurati in un dibattito su, ah-ehm, Dio. Più precisamente, del rapporto fra Dio ed evoluzionismo.
Al Wall Street Journal, han deciso che val la pena pubblicare quello che si dicono, intitolando il tutto Man vs. God. Fra i vari contributi, ce n'è uno di Richard Dawkins.
Richard Dawkins è uno scienziato british piuttosto famoso per aver scritto un libro che si chiama Il gene egoista. Libro che io ho letto; non c'ho capito tutto, ma insomma è una bella botta e poi io di biologia e genetica non è che sappia granchè.
Ad ogni modo, dato che l'opera mi ha abbastanza impressionato e colpito nei suoi concetti generali, mi sono letto quello che Dawkins ha avuto da dire nel dibattito (già intuendo la sua posizione almeno agnostica, visti anche alcuni suoi documentari decisamente antireligiosi) e l'ho tradotto. Nella prima parte, Dawkins gira molto intorno a due concetti, anche elementari. Nella seconda, va giù un po' più duro (l'asterisco segnala l'inizio della seconda parte).
A volte convince, altre meno, ma vale comunque la pena dare un'occhiata:

Prima del 1859 (anno in cui Darwin ha dato alle stampe L'origine della specie, ndgeffe), sarebbe sembrato naturale essere d'accordo con il reverendo William Paley, quando, nel suo Teologia naturale sostiene che la più grande opera di Dio era la creazione della vita. In particolar modo (con un tocco di vanità), la vita umana.
Oggi, noi modificheremmo l'affermazione: l'evoluzione è la più grande opera di Dio. L'evoluzione è la creatrice della vita, e la vita è probabilmente la più sorprendente e più bella realizzazione che leggi della fisica abbiano mai generato. L'evoluzione, per citare una T-shirt inviatami da un simpatizzante, è il più grande spettacolo della terra, è l'unico gioco in città. In effetti, l'evoluzione è probabilmente il più grande show dell'intero universo. L'impressione di molti scienziati è che ci siano forme di vita evolute indipendentemente, allineate intorno a isole planetarie per tutto l'universo - sebbene, sfortunatamente, troppo scarsamente sparpagliate per poterle incontrare.
E se c'è vita da qualche altra parte, è qualcosa di più forte di una semplice impressione dire che questa si rivelerà essere vita darwiniana. L'argomento a sostegno dell'esistenza di vita aliena è più debole dell'argomento secondo cui - se davvero esiste - è vita darwiniana. Ma è anche possibile che noi siamo davvero soli nell'universo. In questo caso, la Terra, con il suo incredibile spettacolo, è il più notevole pianeta dell'universo.

Cos'ha di così speciale, la vita? Non viola mai le leggi della fisica. Niente lo fa (Se qualcosa lo facesse, i fisici dovrebbero semplicemente formulare nuove leggi -è successo spesso nella storia della scienza). Ma sebbene la vita non violi mai le leggi della fisica, le spinge in strade sorprendenti, che sbalordiscono l'immaginazione. Se non sapessimo nulla della vita, non crederemmo che fosse possibile - e, naturalmente, non ci sarebbe nessuno per strada, a fare lo scettico!

Le leggi della fisica, prima che l'evoluzione darwiniana prorompesse dal loro petto, possono realizzare sassi e sabbia, nuvole e stelle, vortici e onde, galassie nebulose e luce che viaggia sotto forma di onde pur mantenendo una struttura molecolare. E' un universo interessante, affascinante e, in molti modi, profondamente misterioso.
Ma, ora, entra in gioco la vita. Guardate, attraverso gli occhi di un fisico, un canguro, un pipistrello, un delfino, una sequoia. Non c'è mai stato un sasso che ha saltato come un canguro, un ciottolo che ha strisciato come una blatta per cercare un compagno; mai un granello di sabbia ha nuotato come una pulce d'acqua. Mai una volta queste creature disobbediscono di un millimetro le leggi della fisica. Ben lontante dal violare le leggi della termodinamica, sono state immancabilmente guidate da esse. Ben lontane dal violare le leggi del movimento, gli animali le sfruttano a loro vantaggio mentre camminano, corrono, evitano e sterzano, saltano e volano, raggiungono una preda o si mettono al sicuro.
*
Le leggi della fisica non sono mai violate, eppure la vita emerge in territori non classificati. E come diavolo è possibile? La risposta è scritta in un processo che, sebbene variabile nei suoi meravigliosi dettaglia, è sufficientemente uniforme per meritarsi un unico nome: l'evoluzione darwiniana, la regolare sopravvivenza di informazioni codificate che variano casualmente.
Sappiamo, nella misura in cui sappiamo qualsiasi cosa nella scienza, che questo è il processo che ha generato la vita sul nostro pianeta. E la mia scommessa, come ho detto, è che lo stesso processo è in corso ovunque al vita possa essere trovata, ovunque nell'universo.
E se il più grande show della terra non fosse il più grande show dell'universo? E se su altri pianeti ci fossero forme di vita evolute ben al di là del nostro livello di intelligenza e creatività, al punto che noi dovremmo considerarle divinità, se fossimo così fortunati (o sfortunati) da incontrarle?
Queste sarebbero divinità? Non saremmo tentati di cadere sulle nostre ginocchia e adorarle, come farebbe un contadino medievale che improvvisamente avesse l'opportunità di vedere un Boeing 747, un telefono cellulare o Google Earth?
Ma, per quanto gli alieni possano avere sembianze divine, non sarebbero dei, e per una semplicissima ragione. Non hanno creato l'universo; quest'ultimo ha creato loro, esattamente come ha creato noi. Creare l'universo è l'unica cosa che nessuna forma di intelligenza, per quanto sovrumana, può aver fatto: data la sua complessità, avrebbe dovuto nascere e svilupparsi a tappe graduali, dai più basilari primi passi: da un universo inanimato- quello spazio esonerato dai miracoli che è la fisica.
Per un'ostetrica, questo tipo di nascita e sviluppo è l'eccezionale conquista dell'evoluzione darwiniana. Comincia con una semplicità primitiva e si sviluppa, seguendo lenti e intellegibili passi, l'affioramento della complessità: una specie illimitata di complessità -certamente più alta del nostro grado di complessità e probabilmente molto oltre.
Ci possono anche essere mondi in cui la vita sovrumana prospera (sovrumana al punto che la nostra immaginazione non riesce a concepire); ma sovrumano non significa soprannaturale. L'evoluzione darwiniana è l'unico processo conosciuto che è definitivamente in grado di generare una complessità come quella di un'intelligenza in grado di creare qualcosa. Una volta che questo avviene, naturalmente, quelle stesse intelligenze possono creare altre cose complesse: opere d'arte, composizioni musicali, tecnologie avanzate, computer, Internet e chissà cos'altro in futuro. L'evoluzione darwiniana può anche non essere l'unico proceso generativo dell'universo. E' possibile che esistano altri strumenti (qui c'è tutto un gioco di parole riferito al libro di un altro scienziato) che non abbiamo ancora scoperto, o immaginato. Ma, per quanto meravigliosi e per quanto diversi possano essere dall'evoluzione darwiniana, questi strumenti non possono essere magici. Dovranno condividere con l'evoluzione darwiniana la capacità di mettere in movimento la complessità con lo status di proprietà emergente, derivante dalla semplicità, e mai in contraddizione con le leggi naturali.
Ma questo discorso, dove lo lascia Dio? La cosa più educata che si può dire è che lo lascia con le mani in mano, e con nessun risultato che possa suscitare le nostre preghiere, le nostre celebrazioni e le nostre paure. L'evoluzione è la cassa integrazione di Dio, la sua lettera di licenziamento.
Ma dobbiamo andare oltre.
Un'intelligenza complessa, in grado di creare e al tempo stesso disoccupata non è solo di troppo. Un architetto divino non può che essere bocciato dalla considerazione secondo cui deve essere complesso al massimo quanto le entità che lo hanno chiamato in causa in cerca di una spiegazione. Non è che Dio è morto, è che non è mai stato vivo.
Ora, c'è una scuola di teologi moderni e sofisticati che può dire qualcosa come: "buon Dio, naturalmente non siamo così ingenui e semplicioni da preoccuparci dell'esistenza di Dio. L'esistenza è una questione così da Milleottocento! Non importa se Dio esiste in un senso scientifico. Quello che importa è se esiste per te o per me. Se Dio è reale per te, a chi importa se la scienza l'ha reso di troppo? Che arroganza, che elitismo."
Bene, se questa è quello di cui siete convinti, troverete pochi sodali. L'orientamento generale dei popoli del mondo è molto chiaro. Loro credono in Dio, e questo significa che credono che esista in una realtà oggettiva, così come la Rocca di Gibilterra. Se questi teologi sofisticati o relativisti postmoderni stanno recuperando Dio dal cassonetto dell'inutilità sminuendo l'importanza di quel che esiste, dovrebbero pensarci due volte.
Dite alla congregazione di una chiesa o di una moschea che l'esistenza è una categoria troppo rozza da attribuire al loro Dio, e loro vi bolleranno come un ateo.
Avranno ragione.

mercoledì 16 settembre 2009

Raccontare e spiegare

E' uscito l'ultimo dei Muse, e su una delle più importanti riviste musicali inglesi, si può leggere una recensione decisamente simpatica. Comincia così:

Il frontman dei Muse, Matthew Bellamy, è una specie di pazzoide che crede che l'11/9 sia stato un crimine messo su dagli USA: che le 3000 persone morte nelle Torri gemelle - e, presumibilmente, le vittime del terrorismo a Londra, Madrid, Bombay, Bali, Giacarta, in Sudan, Somalia e così via - non siano state uccise da terroristi islamici ma da qualche losca cospirazione che include la CIA, gli M16, il Mossad, una compagnia farmaceutica (la Gilead Sciences), la Shell e una falange di rettiliani multiformi.
Bellamy, un innocente e incessante curiosone autodidatta che mette in discussione semplicemente qualsiasi cosa, è sostanzialmente incline a credere in qualsiasi strampalato complotto che va controcorrente rispetto all'opinione generale. In ogni caso, le qualità che rendono Bellamy un tale credulone sono, probabilmente, le qualità richieste nella musica rock in questo periodo. Se sei una rock star, perchè non mettere in discussione qualsiasi cosa?

Poi prosegue, e parla anche abbastanza bene (4 stelle) dell'ultimo lavoro del trio inglese, insistendo soprattutto sugli eclettismi da cui è caratterizzato.

Infine, chiude: nel loro ultimo disco, i Muse dimostrano di poter essere considerati gli ultimi esponenti di una scuola di grandi eccentrici del rock britannico, un trio di professori mattoidi che merita di essere protetto. E se non siete d'accordo, naturalmente, è perchè venite controllati da lucertole metamorfiche.

Pareri personali

A proposito di Patrick Swayze e del fatto che non c'è più: Dirty dancing è una palla, e Ghost pure. Point Break, invece, è un film stupendo.

martedì 15 settembre 2009

Vista da qui

Ora sembra sfociare in ambiti "giudiziari", e quindi vai a sapere. Sinora, però, la lite tra il neodirettore del giornale del Cav e il più fedele alleato politico di quest'ultimo (nonchè presidente di un ramo del Parlamento, e robusto e recente piantagrane all'interno della maggioranza di governo) a me ha divertito un casino.

Billie Joe va un po' acustico, in sta tournée

E non gli viene mica male:

lunedì 14 settembre 2009

Poi uno può anche morire contento

Norman Borlaug

Rivoluzione verde è un termine usato per descrivere un vertiginoso boom della produttività agricola nel mondo in via di sviluppo tra il 1960 e il 1990. Durante questi decenni, in molte regioni del mondo, e specialmente in Asia e in America latina, il raccolto dei cereali più importanti (riso, grano e mais) è più che raddoppiato.

Lo scienziato che per primo studiò e sperimentò le tecniche necessarie alla concretizzazione di questi nuovi processi produttivi è morto l'altro ieri a Dallas.

(La prima volta che ho sentito parlare di Borlaug, è stata in una puntata di The West Wing. Qui ho trovato la sequenza, purtroppo non in italiano.)

Non facciamo scherzi

Quest'articolo del NYT inizia così, maledizione:

Si trattava di una sola riga nel programma elettorale, e difficilmente sembrava la più significativa o controversa. Da candidato alla presidenza, Barack Obama ha detto che avrebbe "stabilito un nuovo programma di assicurazione pubblica" a fianco di quelle private. Quella proposta ha preso vita da sola, ma ora sembra morire, vittima di un'inefficace strategia della Casa Bianca, del fallimento del presidente di discutere appassionatamente della public option e di una dura opposizione del settore assicurativo e dell'industria sanitaria.

Scontro dei due mondi

Lo leggo con ritardo, ma escluso un finale imprevedibilmente zuccheroso per uno come lui, il pezzo di Sgarbi in ricordo di Mike Bongiorno -e della loro famosa litigata- mi sembra molto bello.

Conservare in luogo fresco e asciutto

Del più interessante politico italiano degli ultimi mesi, cioè di Gianfranco Fini, penso una cosa piuttosto semplice: sta dicendo cose sensate, che gran parte degli italiani (di qua e di là dal Cav) pensa e condivide, e che gran parte della destra (e della sinistra) europea considera principi della propria attività politica.
Insomma, visto come siamo messi a destra in Italia, finchè dura grazie al cielo.

venerdì 11 settembre 2009

Questi anni zero

Rinnovando il tic delle classifiche di fine anno, e contemporaneamente anticipandolo, qui chiedono pareri musicali sul decennio appena trascorso. Tre canzoni straniere, tre italiane; tre dischi stranieri, tre italiani.

You might have laughed if I told you

Oggi, sono otto anni secchi dall'undicisettembre.
Di conseguenza, sono sette anni secchi che ci beviamo pessimi servizi melassosi al telegiornale, rimasticati da qualche voce pseudocommossa e retorica, accompagnata -qui sta il nocciolo- da qualche lagnaccia pessima, o, peggio ancora, da ImaginediJohnLennon.

Siccome non scopro chissà cosa dicendo che l'undicisettembre è per la mia generazione quello che

La morte di Kennedy
Lo sbarco sulla Luna
La morte di Aldo Moro

sono stati per la generazione precedente, cioè un evento tanto gigante e condiviso che se ne parla mettendolo in riferimento a quello che si stava facendo nei minuti in cui si scopriva che era avvenuto, ho a cuore che lo si racconti bene.

E allora, cari telegiornali (lo so che non siete delle persone reali, ma ci capiamo comunque, no?) dato che il testo della canzone non se lo fila nessuno, e che comunque il testo di ImaginediJohnLennon c'entra coi disastri di quel giorno quanto Martin Lutero coi Duran Duran, se ci date i R.E.M. con Leaving New York, o Stevie Wonder con Pastime Paradise, o Safari di Jovanotti, o qualsiasi altra cosa non abbia il sapore di essere preparata solo per gabolare chi ha una cultura musicale inferiore a quella di mia nonna in carriola, noi siamo un poco più sereni.
Felici no. Per quello ci vuole il gol di Grosso ai tedeschi. White Stripes o meno.

giovedì 10 settembre 2009

Well, he went south, with a case of survival

Coincidenze, forse: tempo fa, Nico mi diceva che a Wired americano si erano inventati un gioco bizzarro. Si trattava di organizzare una caccia all'uomo programmata, che come oggetto di ricerca aveva un collaboratore della rivista.
Dove diavolo fosse sto tizio, non lo sapeva nessuno.
Premio per chi lo scovava: 5000 dollari.
Coincidenze, forse: proprio nei giorni in cui Nico inaugura una sezione del blog dedicata a personaggi spariti dalla circolazione, leggo che l'hanno trovato, quel giornalista.
Stava ordinando una pizza senza glutine, a New Orleans.

Sick of it all

Mi accorgo un po' in ritardo di aver pubblicato un post leggermente diverso da quello che avevo salvato. Ora ho corretto, ora ha più senso:

Allora.
Nel suo discorso di stanotte, Obama è andato bene, a quel che ho capito leggendo in giro. Fra le cose che ho letto, il commento più sintetico ed efficace è questo, una specie di categorizzazione del discorso nelle sue parti. Ne traduco una parte qui sotto:

- Conciliante: Voi repubblicani volete parlare di quel che non va nella riforma? Sentiamo le vostre idee.
- Duro: Quando dite bugie, noi vi smaschereremo.

- Chiarificatore: Per la prima volta, ho avuto la sensazione di percepire un' "idea più grande" dietro il progetto di Obama.

- Quadro allargato: Il soliloquio sul ruolo del governo alla fine del discorso, incluso il riferimento alla storia del contratto sociale di Social Security e Medicare. (Assicurazioni pubbliche)

- Emozionale: Quando si è preparato per la fine, ho temuto che avrebbe raccontato la storia di tutti i Lenny Skutnik (eroe americano). Invece, ha raccontato quella di Ted Kennedy, con allusioni dirette agli amici repubblicani del defunto senatore.


Un altro commento che ho letto è qui.

Si dice che "... siccome il piano (il cui costo complessivo gira intorno ai 900 miliardi di dollari) non è sufficiente a garantire a ogni americano l'accesso a un'assicurazione sanitaria, è inclusa un'esenzione per cittadini che stipulano un'assicurazione che non riescono a sostenere. Non si può scegliere quel che non ci si può permettere. Se Obama non ha creato il piano perfetto, ha creato qualcosa che probabilmente è più imponente: un piano che effettivamente potrebbe passare. Quel piano potrebbe non fare abbastanza per cambiare il sistema sanitario, e potrebbe non spendere abbastanza per proteggere tutti. [...] Il piano assicurerà 30 milioni di americani e ne proteggerà decine di milioni in più dalla discriminazione degli assicuratori, bancarotta medica (debiti contratti per costi di cura che i pazienti non riescono a sostenere) e recessione. Porterà più concorrenza al mercato delle assicurazioni, e più vantaggi alla disciplina medica. Potrebbe non essere perfezione, ma è un miglioramento. Ed è ottenibile."

Un'ultima cosa, ancora.
Come fatto notare da Christian Rocca, Obama non ha citato i soliti 47 milioni di americani privi di assicurazione, ma si è limitato a dire "più di 30 milioni". Qui, ho capito il perchè: No, 17 milioni di persone non hanno trovato un'assicurazione lo scorso mese. La cifra sistemata è parte dello sforzo della Casa Bianaca a distanziarsi dalle dichiarazioni secondo cui la riforma della sanità coprirà anche gli immigrati irregolari. Secondo un censimento, dei 47 milioni di non assicurati, circa 10 sono proprio gli irregolari. Dai cinque ai sette milioni, invece, sono i cittadini che potrebbere passare a Medicaid ma non l'hanno fatto.

Insomma, per tirare le fila e per schematizzare il tutto, la ciccia della questione ruota attorno alla proposta della public option. In sintesi, si tratta di un intervento federale nel mercato (complicatissimo e mastodontico) delle assicurazioni sanitarie, destinato però esclusivamente a chi è totalmente privo di assicurazione. Il pubblico diventa un elemento che compete nel mercato, riempiendo un buco lasciato dal privato.
Nel discorso, Obama ha ribadito la sua inclinazione a portarla fino in fondo, sta public option.
Se la molla, le critiche hanno un argomento determinante, i simpatizzanti un po' s'incacchiano e lui si mostra deboluccio.
Se tiene duro su quella, porta a casa una riforma sostanziale, un progresso nella vita di molti americani e scrive una paginetta di storia americana in bella copia.

mercoledì 9 settembre 2009

Tagliando corto

Quest'estate, ho aiutato un ragazzino a preparare gli esami di terza media (uscito con 7); ho passato quattro settimane in un centro estivo a correre dietro a ragazzini delle elementari; sono andato una dozzina di giorni in California con qualche amico; ho passato altre due settimane correndo dietro ai ragazzini di cui dicevo prima; ho smontato una piscina da giardino grande quanto il vagone di un treno e sono andato a Marina di Massa per qualche giorno con altri ragazzini.
Nel frattempo, leggevo uno stupendo libro sul Mississippi, curavo le overdose di socialità con sanissime botte di sociopatico isolamento, dormivo poco e, come avrete capito, ascoltavo Civilian Ways dei Rancid un numero vergognoso di volte.